top of page

Zenith

Quando avevo sedici anni io e i miei amici andavamo a vedere le partite della Juventus in coppa campioni e quelle dell'Italia nella vecchia casa dei miei nonni, disabitata perché i miei nonni vivevano a casa mia. Dopo le partite restavamo spesso a raccontarci storie d'orrore o strani sogni che avevamo fatto. Facevamo progetti di scrivere quelle storie o di girare dei film horror e siccome nessuno prendeva mai l'iniziativa, un giorno scrissi un racconto sperando di poter stimolare anche la fantasia degli altri. Si chiamava Semifinale da brivido. Era un piccolo racconto horror con l'atmosfera di quelle serate tra amici. Una di quelle sere in cui ci incontrammo a casa dei miei nonni, faceva freddissimo nonostante fosse estate ed eravamo tutti con le felpe e i giubbotti. Aveva piovuto ininterrottamente per tutto il pomeriggio. Dopo la fine della partita, i miei amici andarono via e io restai ad armeggiare con la serratura che aveva un difetto. Di solito riuscivo a chiuderla al secondo o terzo tentativo, ma quella sera non ne voleva sapere. Cominciai ad avere paura. Ero fuori da una vecchia casa buia e umida in un vicolo cieco delimitato da un muro di tufi dietro cui scendeva una collina di terra. Il posto giusto in cui ambientare un omicidio alla Splatter o Demon Story o anche alla Dylan Dog. Inizai a pensare di lasciare la porta aperta e andare via, ma non potevo. Mia madre mi avrebbe tolto per sempre le chiavi. Mi innervosii, rischiai di spezzare la chiave, ma alla fine riuscii a tirarla via dopo aver chiuso. Andai via sulla moto a dieci chilometri orari, con il gelo sulla nuca, sulla faccia e sulle nocche, guardandomi attorno. Non avevo semplicemente paura. Ero sicuro che mi sarebbe successo qualcosa. Ero talmente concentrato a guardarmi indietro che per fare prima presi una scorciatoia che passava accanto allo scheletro di un palazzo abbandonato e al convento delle suore. Mi fermai con i piedi giù dalla moto prima di imboccare la strada. Avevo talmente tanta paura che spensi la moto per decidere. Credo che in quel momento mi sia venuta in mente l'idea che poi ha portato a Zenith.

La sera in cui iniziò tutto
Una di quelle notti
Lettura Primo Capitolo

Dopo Semfinale da brivido, nell'estate del 1998, iniziai a scrivere un altro racconto sullo stesso tema. Una serata passata con gli amici, strane depressioni, inspiegabile paura di morire, ritorno a casa in moto. Era il racconto esatto di quella assurda serata in cui ero tornato a casa in moto terrorizzato. Ero curioso di sapere dove portava. Seguii il protagonista che decideva di andare avanti per il convento delle suore. Le nostre strade si dividevano dopo l'esito di quella scelta. Io ero arrivato a casa sano e salvo. Semmai un po' infreddolito. Lui non proprio. Il racconto si faceva interessante, diventava soprannaturale, o meglio si concretizzava il senso del soprannaturale fin lì solamente sentito dal protagonista. Era passata una settimana dall'inizio della stesura, ero a 27 pagine A5 e il racconto non finiva. Anzi, sembrava appena iniziato. C'era un campo, due cerchi di elfi che giravano in tondo e due ragazze sedute in mezzo ai due cerchi. Chi erano? Cosa ci facevano lì e perché lui le aveva incontrate? Volevo delle risposte. Andai avanti, presentai il protagonista alle ragazze e loro gli raccontarono una strana storia. La storia di una notte fuori dal tempo e dallo spazio. Una notte magica. E intanto eravamo a 50 pagine. Salvai il file col nome Una di quelle notti e mi sentii come la prima volta che avevo avuto un orgasmo. Non si scherzava più coi racconti brevi scopiazzati da Dylan Dog. Avevo un romanzo. Ero uno scrittore e avevo solo sedici anni.       

Da Una di quelle notti a Zenith

Una di quelle notti era davvero un romanzo. La prima stesura, conclusa nei primi giorni del 1999, comprendeva 186 pagine. Avevo allungato il brodo con un sacco di cazzate, lo ammetto, però poteva andare. Non avevo dubbi sul fatto che fosse un capolavoro, meglio di qualunque cosa avessi mai letto e cioè più o meno una trentina di libri. Ci sono pochi libri che sono nati buoni, libri la cui prima versione ha avuto bisogno di poche revisioni prima di essere pubblicata e trovare fortuna. Una di quelle notti non era uno di questi libri. Col passare del tempo, dal libro che mi aveva reso scrittore, diventò la drammatica consapevolezza che non sarei mai riuscito a scrivere niente di buono. Ogni volta che ci ripensavo mi rendevo conto di quanto fossero stupide la maggior parte delle idee. Se la storia stessa fosse stata una cazzata, avrei smesso di preoccuparmene. Il problema era che continuavo a considerarla geniale e a considerarmi un incapace se non ero riuscito a trasformarla in qualcosa di buono. Cinque anni dopo trasformai Una di quelle notti in un racconto Il viaggiatore della notte mentale, per inserirlo in una bruttissima raccolta di racconti horror. Fu molto triste. Ridussi la storia al minimo possibile, delle nove anime incontrate nella prima versione, ne scelsi soltanto tre, le tre più riuscite, e riscrissi la loro storia cercando di renderla più credibile. E cercando anche di scrivere in modo decente. Non ci riuscii. Per niente proprio. Il racconto era davvero brutto. Però una delle tre anime la preferivo nella nuova situazione. Scrissi altro, ancora. Finché non mi passò la voglia e smisi completamente, sia di leggere sia di scrivere. Ero arrivato alla conclusione di non essere capace davvero. Non mi spiegavo perché avessi avuto tutte quelle idee nella mia vita. Idee geniali che non potevo neppure vendere a qualcuno più bravo. Pensai al lavoro e alle altre cose. Entrai e uscii da un paio di forti depressioni. C'era qualcosa che non andava. Qualcosa che mi mancava. Non era l'ispirazione o la nuova idea per un nuovo libro. Ero stanco di tirare fuori  libri che dopo pochi mesi iniziavano a darmi un milione di dubbi. Volevo togliermi quei dubbi invece. Presi una decisione. Non avrei scritto mai più nulla di nuovo finché non avessi ripreso tutti i libri già scritti e non li avessi resi belli come li vedeva la mia mente. Nell'inverno del 2009/2010 ricominciai dal principio, dal libro che mi aveva reso uno scrittore, Una di quelle notti. Iniziai a correggerlo, ogni notte, ma dopo cinque o sei righi, avevo un rigetto. Spegnevo il computer, andavo a fumarmi una sigaretta davanti allo specchio in bagno rimproverandomi per quello che avevo scritto all'epoca e per l'incapacità a superarlo e andavo a dormire. Andò avanti così per un po', finché non presi un'altra decisione. Una di quelle notti non andava corretto. Andava riscritto. E dovevo trovare qualcosa di meglio del titolo del primo file di salvataggio. 

Zenith venne fuori nel corso del 2010 completamente riscritto dalle ceneri di Una di quelle notti. Da grezzo e inutilmente volgare, diventò aulico e barocco. Chissà perché. La lettura di mezzo inferno della Divina Commedia mi aveva messo uno strano stile tra le mani. Inutile dire che anche questa versione era lontana dall'idea che avevo in mente. Non avevo fatto nient'altro che rovesciare la situazione per allontanarmi il più possibile dalla prima versione. Però c'erano anche degli aspetti positivi. Prima di tutto sapere di avere tutta quella pazienza. Poi avevo cambiato alcune scene che mi avevano sempre dato a pensare, una di queste era tratta dal racconto di tre sole anime che avevo scritto anni prima. Sembrava che ogni passo potesse essere servito a qualcosa, ma nessuno mi aveva ancora portato dove volevo. Dovevo prendere coscienza della mia scrittura. Era arrivato il momento. Dovevo lasciare perdere le tastiere e cercare i libri dove potevo capire qualcosa di più su quella stranissima forma d'arte che in fin dei conti non avevo mai capito. Iniziai con manuali di scrittura semplici, che parlavano di cose elementari. La maggior parte delle cose scritte non davano soddisfazione. Però c'era sempre qualcosa da valutare. Andai avanti, mi informai su quali fossero i manuali migliori, sempre che ce ne fossero. Passai per London, Virginia Wolf, Milan Kundera, Burroughs, Palaniuk, Umberto Eco e non so quanti altri. Tutta roba interessante, ma niente grandi segreti che non avessi già scoperto o che facessero per me. Tutti però dicevano che bisognava leggere tanto. Se non altro lo stavo facendo. Il primo giro di manuali aveva dato solo piccoli consigli tutti utili ma mai decisivi. Ciò che avevo scoperto di più importante era la necessità di annullare l'io e farlo scomparire dai propri testi. E anche dalla propria vita. Era un buon proposito, ma nessuno sapeva dire come fare. Sperimentai le nuove piccole scoperte su un testo sperimentale, ma non ci furono grandi risultati. Persi di nuovo fiducia, sembrava che la strada dei manuali non mi avrebbe portato lontano da dove ero. A ridarmela arrivò l'annuncio di una agenzia letteraria a cui avevo mandato Zenith tempo prima. Dissero che era un buon testo e che volevano aiutarmi a correggerlo. Mi lanciai di nuovo sui manuali, ne scoprii altri. Trovai un libro di Carver sulla scrittura. Prima decisi di leggermi una raccolta di racconti di Carver per capire almeno chi fosse. Io ero della sponda Bukowski. Lessi il manuale. Non c'era niente di interessante, tranne gli aneddoti di quando era uno sconosciuto e aveva difficoltà a far andare insieme lavoro, scrittura e famiglia. Cose che avevamo in comune. Però c'era un nome. John Gardner. Carver lo definiva il suo maestro. E aveva scritto un libro sulla scrittura. Si chiamava On becoming a novelist. E poi ne aveva scritto un altro. Art of fiction. Li trovai entrambi, in inglese. Quando mi lanciai nella loro lettura, a parte sentirmi un mostro perché riuscivo a capire tutto quello che era scritto, capii di aver trovato quello che cercavo. Gardner era il mio uomo. Divorai il suo manuale e ripresi a correggere Zenith. Andai avanti per un anno, il vero segreto diceva Gardner era non stancarsi mai di ricorreggere, prima o poi il testo sarebbe venuto fuori con la voce autorevole di cui parlava anche Palaniuk. Il vero segreto, diceva Gardner, era non interrompere il sogno continuo creato tramite la scrittura davanti agli occhi del lettore e l'unico modo per farlo era scrivere bene e non scrivere cazzate. Il vero segreto, diceva Gardner, era far vedere senza dire. Mostrare, fare in modo che fossero le scene a esprimere tristezza senza mai nominarla neanche tramite sinonimi, chiaro. Lasciare che la scena e il lettore interagissero da soli. Lo scrittore doveva togliersi di mezzo. Ecco come si faceva a far scomparire l'io. Gardner era una miniera di segreti che non finiva mai. Aveva capito tutto e l'aveva messo a disposizione di tutti. Rilessi tutto Zenith. Non andava ancora bene. Per niente. Per fortuna l'agenzia si era sciolta così non dovevamo più far uscire il libro. Lo lasciai perdere per un altro anno. Quello che mi mancava non poteva darmelo neanche Gardner. Adesso si trattava di tirare fuori le idee che potessero dare vita alle scene statiche rese vivide dai consigli di Gardner, ma ancora poco fluide. Lo corressi ancora, senza nessuna speranza, senza nessuna certezza, dopo decine di altri manuali. Mi mancavano alcune idee determinanti. Un buon finale. Una spiegazione semplice e comprensibile per l'idea che reggeva la struttura. Pensavo che non le avrei mai trovate, che avrei corretto e riccorretto all'infinito quel libro senza mai vedere la fine. Ormai non mi interessava più di essere uno scrittore. Tutto quello che facevo lo facevo solo perché volevo capire. Lo ricorressi ancora. Ogni volta c'erano nuovi dettagli da migliorare, ogni volta mi avvicinavo di un po' a una perfezione irraggiungibile. Lo corressi ancora. Altre buone idee, lo spirito iniziale veniva fuori sempre di più. Finché non mi accorsi di quanto fosse semplice risolvere tutto. Trovai il finale senza pensarci. Capii qual era il modo di descrivere in maniera semplice l'idea alla base del libro. La definizione di Zenith. Era semplice perché io, lo scrittore, non c'ero più. C'era soltanto una storia che si era scritta da sola, per diciassette anni, attraverso le mie mani.                   

 

bottom of page