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Nome 

Storia d'autore

Nato
  • Black Facebook Icon
il 9 dicembre 1981
Stefano Saccinto
Luogo
Canosa, Bari, Italia

Lasciare parlare gli altri di sé, è sempre la cosa migliore. Non centreranno il fulcro di quello che siete, ma almeno non dovrete sentirvi stupidi nel cercare le parole che vi descrivono. E che comunque non centreranno in fulcro di quello che siete. Ma a volte bisogna farlo, diciamo che bisogna presentarsi, se non altro per educazione. Quello che devo presentare in questa pagina è l'autore delle cose che scrivo e non me stesso, l'altro, quello che vive, quindi non vale la pena di parlare di lavoro, famiglia e cose del genere. Non so dirvi quando è nato di preciso, per queste cose è un po' meno semplice che ricorrere a un dato anagrafico, ma posso dire che è passato parecchio tempo. Posso dirvi che da bambino inventavo storie e che volevo per regalo una macchina da scrivere. E anche che me la regalarono. Non so se avete presente Oliver Hutton e il calcio. Per me e le cose scritte è andata più o meno nello stesso modo. Sono uno di quelli che ha sempre saputo cosa voleva fare. Riuscirci poi è una cosa a parte. Nonostante tutto non sono mai stato sicuro che avrei scritto qualcosa di buono finché dopo racconti poesie e bozze abbandonate non arrivò il primo libro, Una di quelle notti, a sedici anni. Venne fuori da solo, io non feci altro che perderci il tempo tutti i pomeriggi per sei o sette mesi. Forse venne fuori dalla noia dell'estate, forse dalla delusione per la vita reale, o forse era un universo parallelo su cui non so come riuscii ad entrare. Comunque venne fuori per intero, senza un solo blocco di ispirazione o un qualche dubbio e dal momento in cui c'era, non potevo più pensare di non occuparmi della cosa dello scrivere. Continuai a farlo. Il secondo libro diede più dubbi del primo già solo perché era una storia d'amore. E poi perché lo lasciai perdere a tre o quattro capitoli dalla fine. Non mi piaceva. Il primo poteva essere stato un caso, poteva non venirmi mai più in mente l'idea per una buona storia. Quella non lo era almeno, quella del secondo libro. Dopo parecchi mesi mi venne voglia di rileggerlo. Ci presi gusto. Iniziai a capire che cosa avevo voluto dire, perché avevo iniziato a scriverlo e cosa volevo farne. Fu tutto chiaro, così lo completai ed ebbi due libri completi. Diversi, ma buoni. Due libri erano una certezza maggiore che uno. Da quel momento lasciai perdere i dubbi e continuai a scrivere. Scrissi un libro all'anno, per i successivi sette anni. Era diventata una specie di tradizione. Calcolavo quanti libri avrei scritto se avessi vissuto fino a una certa età. Non capivo come avessero fatto quelli che ne avevano scritti centinaia. Voglio dire, non erano vissuti centinaia di anni, era impensabile dare meno di un anno a un libro per venire fuori. Cominciai anche a provare a pubblicarli. Riuscii a far leggere qualcosa agli editori, ma dicevano tutti che i libri andavano corretti e io pensavo che si sbagliassero. Non era proprio questo. Sapevo che andavano corretti, ma non come per quello che intendevano gli editori. Loro avrebbero eliminato le parolacce e reso artificiali i dialoghi, avrebbero inserito qualche formula standard per le descrizioni, convinti che ci fossero proprio delle regole da seguire e che se uno avesse scritto naso camuso ci dovesse davvero essere dall'altra parte qualcuno che capisse cosa voleva dire. Era tutto quello che sapevano fare. Avevano il potere di trasformare un libro in merda col solo schioccare le dita. Avevo la sensazione che non ne capissero niente di scrittura, per questo non volevo neanche provare a correggere i miei libri con i loro criteri. Continuai a cercare editori e a scrivere fino più o meno a ventiquattro o venticinque anni. Poi pensai che avevo perso troppo tempo con quelle stronzate. Smisi di scrivere e leggere. Non ero un tipo molto concreto, cercai di lavorare su quell'aspetto della mia vita. Smisi anche di ascoltare musica e di vedere film. Diventai una specie di genitore di me stesso che mi teneva in continua punizione perché mi aveva scoperto a leggere i fumetti invece di studiare. L'idea non era sbagliata. Il genitore aveva ragione. Era inutile continuare a tirare fuori libri scritti male e aspettare che ti dessero l'attestato di scrittore. Dovevo iniziare a studiare, a cercare. Cose tipo i manuali di scrittura mi sembravano stupide, ma da qualche parte doveva esserci un modo di imparare a scrivere o di capirci di più su quello che avevo scritto e su come avrei potuto scrivere meglio. Tutti mi avevano sempre detto che sapevo scrivere. Avevo dato per scontato che se sapevo già farlo non avevo niente da imparare. Dovevo solo tirare fuori il talento e scrivere. Invece le cose non stavano così. Iniziai a riprendere i vecchi libri. Partii da cercare di capire cosa non andava e come potevo fare per migliorali. Riuscii a correggere il secondo. Il fatto che fosse migliorato anche solo di un po', mi fece sentire bene. Voleva dire che c'erano delle possibilità. Solo che era troppo stancante e anche noioso. Conoscevo già la storia, non c'era niente di divertente nel rileggersela per intero due o tre volte. Decisi di lasciare perdere. La correzione dovevano farla le case editrici, ma le case editrici non sapevano farla. Io non ne avevo voglia. L'unica possibilità era trovare una casa editrice che sapesse correggere. Mi rimisi a cercare, ma intanto non avevo nuove idee e così non scrissi niente e non corressi niente per altro tempo ancora. Smettere di scrivere era stata una scelta difficile. Nessuno scrittore di meno di trent'anni lo vorrebbe tranne Rimbaud. Però scrivere ancora in quel modo stupido, a tentativi, non mi dava più soddisfazione. Il fatto delle case editrici era una cosa stranissima. C'erano quelle grandi inavvicinabili, le medie sulla scia delle grandi e le piccole che chiedevano soldi oppure mettevano il libro in vendita sul loro sito o organizzavano presentazioni deprimenti in presunti posti culturali. L'Italia era ai tempi di Madame De Stael, non era mai guarita dalla sua ignoranza ostentata nell'intellettualità. I depositari della cutlura, i critici, gli scrittori e gli addetti a proporre nuovo cibo per le menti affamate dei lettori italiani non erano in grado di fare niente, di tirare fuori un solo libro interessante. I lettori diventavano sempre meno. I titoli in libreria profondevano una strana forma di amore talmente banale da non significare niente e in questo non significare niente si riconoscevano così tante persone che quei libri arrivavano a vendere milioni di copie. Mode senza alcuna scrittura dietro. Era l'unica cosa a cui le case editrici sembravano interessate. C'era da perdere la fiducia. Non valeva la pena di stare dietro a quegi stronzi. Io cercavo altro. Volevo un libro che fosse una visione, volevo immagini multiformi e fluide che si modulassero sulle parole scritte e mostrassero al lettore un mondo nuovo, qualcosa di mai visto prima. Volevo scrivere il libro dei libri. Ci hanno provato parecchie persone e qualcuno c'è riuscito perché non esiste un solo libro dei libri. Mi diedi tempo. Tirai giù un progetto che non sapevo se avrei davvero rispettato. Non scrivere più niente di nuovo, correggere tutti i libri finché ognuno non sarebbe diventato un vero e proprio mondo in cui il lettore potesse immergersi come facendo una vera e propria esperienza di vita, pubblicare tutti i testi, dal primo all'ultimo senza permettere agli editori di rovinarli. Con Un'estate qui capitò per caso, mi fu chiesto di pagare per pubblicare qualche centinaio di copie e io accettai perché la cifra non era alta e perché era l'unico modo per avere delle pretese sulla correzione del testo e sull'impostazione grafica. Venne fuori il libro che volevo. Il primo tentativo era andato bene, se non fosse per i seicento euro regalati alla casa editrice. Con quel libro mi comprai il diritto di dire a tutti che c'erano delle cose che avevo scritto e che volevo che le leggessero. Andò bene. Lo lessero più persone di quante avrei sperato e lo apprezzarono molte di più di quante avrei mai immaginato. Adesso che l'esperimento era andato bene, potevo passare a mettere in pratica quello che ne avevo dedotto. Iniziai a correggere il primo libro, ma non andava mai bene. Così decisi di fare quello che non avevo mai fatto nonostante il genitore severo che ero stato una volta con me stesso. Iniziai a studiare. Proprio gli stupidi manuali di scrittura. Non cercavo consigli, non mi interessavano gli esercizi in cui dovevi provare a riscrivere con dieci stili diversi la stessa scena. Cercai il segreto. Quello che aveva reso di Hemingway Hemingway e di Bukowski Bukowski e degli altri gli altri. Quello che mi avrebbe aiutato a rendere di me stesso me stesso. Corressi il primo libro per centinaia di volte, senza stancarmi mai. Tra letture, studi e riscritture, bruciai l'intera riserva di serotonina del mio cervello. Non lo so se c'è stato qualcun altro talmente stupido da rischiare di impazzire per un libro, per una cosa inesistente. Di solito gli scrittori tirano giù roba perché sono pazzi, non il contrario. Comunque finii di coreggerlo e siccome non andava bene, lo lasciai sare e dopo un anno lo ripresi. Ero al di là della scrittura, al di là della pubblicazione, al di là dell'ispirazione e dell'idea stessa di libro. Ero al di là di tutto, dove non sei più niente e in quanto nullità, non hai più niente da perdere. Finii di correggere, ricominciò l'infinito ripetersi delle migliaia di dubbi, finché un giorno, così inaspettatamente come era venuto fuori il primo libro, non andarono via tutti. Era arrivato il momento di capire se la mia visione avrebbe potuto contagiare le altre menti. Nel frattempo ero diventato l'autore, il correttore di bozze, l'editor, il promotore e l'editore dei miei scrtti. Questa storia ha inizio adesso e quindi non posso dire nient'altro.   

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